di Giuliana Sgrena
Bengasi è nota per essere la piazza più sensibile alle provocazioni occidentali. Qui è iniziata la rivolta contro Gheddafi, prima pacifica poi militare e infine inquinata da noti elementi jihadisti e qaedisti, protagonisti della guerra santa in tutti i paesi che vanno dalla Somalia fino all’Afghanistan, passando per la Siria. Dunque un terreno minato.
Allora sorge inevitabile una domanda: come mai l’ambasciatore Usa Chris Stevens, noto conoscitore del mondo arabo e della sua cultura oltre che della Libia, si trovava a Bengasi proprio l’11 settembre?
Le voci su un possibile attentato a target americani in occasione dell’anniversario dell’attacco alle Torri gemelle preoccupava tutti i servizi segreti e le cancellerie. E quelli americani? Che hanno contribuito con il loro intervento a creare quella miscela esplosiva che sta incendiando tutta l’area? Le ambasciate americane ora sono sotto tiro a Tripoli, al Cairo e a Tunisi, le capitali le cui nuove leadership sono state riconosciute dagli Usa. Egitto e Tunisia sono in mano ai Fratelli musulmani che invece non hanno vinto a Tripoli, dove, si è detto, hanno trionfato i «liberali». Liberisti in economia come lo sono Morsi e Ghannouchi, ma forse ci si è dimenticato che il primo atto del libico Jibril dopo la caduta di Gheddafi è stato quello di proclamare la sharia, legge coranica. In Libia nessuna forza si è mai definita secolare: la contaminazione tra politica e religione non ha escluso la Libia.
L’occidente continua a ritenere l’islamismo un interlocutore affidabile se «moderato» e condanna quello radicale, così facendo forze che fino a ieri erano sulla lista nera del terrorismo appena raggiungono il potere diventano fedeli alleati. Nessuno, o pochi, tra gli osservatori occidentali si è posto il problema di come sono state vinte dagli islamisti le elezioni nei paesi delle rivoluzioni arabe: l’analisi richiederebbe tempo e spazio, ma uno degli elementi determinanti è stato l’aiuto e il finanziamento arrivati dall’Arabia saudita e dal Qatar (fondamentalisti, ma amici dell’occidente). Sono gli stessi petrodollari che hanno finanziano i mercenari in Libia e che ora finanziano quelli che combattono in Siria. L’Arabia Saudita insieme agli americani appoggiava alla loro nascita i Taleban e prima ancora i jihadisti addestrati da Bin Laden.
Ma la storia non sembra insegnare nulla. Ora quei «mostri» creati per combattere il comunismo negli anni 80 hanno acquisito strumenti sofisticati per fomentare quando vogliono l’odio anti-occidentale, estraneo alle rivoluzioni arabe.
Possibile che un film porno spazzatura uscito un anno fa negli Usa provochi manifestazioni proprio l’11 settembre? È possibile se a diffonderlo è una tv salafita egiziana. Provocatori? Forse, ma lo è anche chi ha prodotto il film ben sapendo quale uso ne sarebbe stato fatto magari sperando proprio che ciò accadesse durante la campagna elettorale americana. Perché i fondamentalisti religiosi non ci sono solo nei paesi musulmani ma anche nella democraticissima America e sono altrettanto feroci.
Se i corani bruciati a Bagram hanno interrotto i negoziati tra Taleban e Usa, forse era quello che volevano gli studenti di teologia sicuri di arrivare al potere anche senza trattative dopo il ritiro americano nel 2014. L’occidente ha appoggiato le vittorie islamiste senza calcolare che quando la religione si fa potere ogni sprediudicatezza è possibile, anche che i salafiti tunisini diventino il braccio armato di Ennahda, e così via in tutti i paesi vicini. La contiguità tra religione e politica crea alleanze diaboliche.
Obama può vantare l’eliminazione di Osama bin Laden, ma è ben poco nel momento in cui la rete qaedista dai mille tentacoli si sta estendendo dall’Asia al Medio oriente e fino a tutta l’area sahariana da dove tiene sotto scacco Mashreq e Maghreb.