di Chiara Acciarini
“Ogni istituto ha la sua bandiera; ogni aula l’immagine del crocifisso e il ritratto del re”: così disponeva, nel lontano 1924, l’art. 118 del R.D. 965.
E’ la norma più recente che si può trovare sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche del nostro paese, a meno che non si voglia tenere conto di alcune circolari sugli “arredi” delle medesime. Non è certo necessario ricordare il contesto storico in cui la norma è stata emanata: il fascismo stava consolidando l’occupazione delle istituzioni attraverso leggi truffa, brogli elettorali, disprezzo dell’istituzione parlamentare. Il 1924 è l’anno dell’assassinio di Matteotti. In quel periodo il regime di Mussolini aveva iniziato, e aveva tutto l’interesse a consolidare, il processo di avvicinamento alla Chiesa cattolica, che sarebbe culminato con il Concordato fra Stato e Chiesa nel 1929.
Nel Concordato la religione cattolica era riconosciuta come religione di stato: “L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica”. Come simbolo della religione di stato, il crocifisso rimase affisso nelle aule.
Da allora sono passati molti anni e sono avvenuti molti cambiamenti. Il più importante, ovviamente, è rappresentato dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che nei suoi principi fondamentali ha stabilito che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Seppur tardivamente, la revisione del concordato del 1985 non ha potuto ignorare la limpida affermazione della libertà religiosa e la nuova concezione dei rapporti fra lo Stato e la chiesa cattolica che scaturiva da questo e da altri articoli del testo costituzionale. Pertanto, mentre lo Stato s’impegnava a continuare l’insegnamento della religione cattolica, si affermava che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno di non avvalersi di detto insegnamento”. E, in seguito, molti pronunciamenti giurisdizionali hanno confermato che il cattolicesimo non è più la religione di stato. L’obbligo di applicare rigorosamente il principio della facoltatività dell’ora di insegnamento della religione cattolica è stato affermato dalla sentenza n. 203/1989 della Corte Costituzionale e la sentenza 439/2000 della IV penale della Corte di Cassazione e anche la recentissima sentenza del TAR del Lazio, nell’escludere la presenza degli insegnanti di religione cattolica dagli scrutini, ha tenuto a ribadire il principio della libertà religiosa e dell’uguaglianza fra i cittadini.
Purtroppo l’ambiguità con cui le norme costituzionali e le sentenze che ne raccomandavano l’applicazione sono state rispettate nella vita quotidiana delle nostre scuole è sotto gli occhi di tutti. Ed il crocifisso è rimasto nelle aule in base a norme amministrative e regolamentari che ne avevano previsto l’inserimento fra gli ”arredi” di cui le aule devono essere dotate. Non sono mancate prese di posizioni coraggiose da parte di insegnanti e di genitori, ma si sono scontrate contro il muro di gomma dell’amministrazione scolastica. Non dimentichiamo, poi, che don Milani, perché nessuno pensasse che la sua era una scuola confessionale, tolse il crocifisso. E’ poi anche intervenuto un contorto pronunciamento del Consiglio di Stato, che ha solo escluso la rimozione del simbolo del cattolicesimo dalle aule in cui già si trovava.
Finché Soile Lautsi, cittadina italiana di origine finlandese, non si è rivolta alla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo e ha chiesto che fosse rispettata la sua richiesta di rimuovere il crocifisso dalle aule dell’istituto Vittorino da Feltre di Abano Terme, dove studiano i suoi figli.
E la Corte le ha dato ragione. Ovviamente si apre ora la strada del ricorso, che il governo Berlusconi ha immediatamente annunciato. Potrà essere accolto ed allora la questione sarà discussa ulteriormente nell’istanza superiore, la “Grande Camera”, oppure potrà essere respinto e l’esecutivo dell’Unione Europea dovrà stabilire quali azioni, entro sei mesi, l’Italia dovrà compiere per adeguarsi alla decisione della Corte.
Mentre si attendono questi sviluppi si dovrebbero evitare sia gli inopportuni richiami alla “nostra identità” di Gelmini sia gli incredibili confronti con le zucche di Halloween del cardinal Bertone. La conoscenza della storia dovrebbe poi aiutare il nuovo segretario del PD Pierluigi Bersani a tralasciare affermazioni semplicistiche come quella che ha ritenuto di compiere ieri: “un’antica tradizione come il crocifisso non può essere offensiva per nessuno”. Purtroppo il crocifisso, che è, tra l’altro, cosa diversa dalla croce, rappresenta per gli appartenenti ad alcune confessioni religiose anche cristiane un simbolo di idolatria, che spesso ricorda efferate persecuzioni compiute nei loro confronti.
Qui non basta parlare di buon senso. Occorre provare ad ascoltare la voce del diritto, che ha trovato ieri nell’articolo di Stefano Rodotà su Repubblica un’espressione alta e qualificata: “Questa sentenza ci porta verso un’Europa più ricca, verso un’Italia in cui si rafforzano le condizioni della convivenza tra diversi, dove acquista pienezza quel diritto all’educazione dei genitori che i genitori cattolici rivendicano, ma che deve valere per tutti”.
Rispettando le differenze, imparando a convivere con un passato complesso e contraddittorio, si può creare un clima di reciproco rispetto e tolleranza fra i credenti delle varie religioni e fra credenti e non credenti.
Solo così la scuola potrà vincere la sfida della multiculturalità e rappresentare uno spazio dove si cresce tutti insieme e insieme si è impegnati nella faticosa costruzione di valori condivisi.
Una scuola nella quale acquistano pieno significato le parole con cui la donna che è al vertice della Chiesa valdese, Maria Bonafede, ha commentato la sentenza di Straburgo: “Se non c’è nessun simbolo, ci sono tutti”.
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