L’articolo 96 subisce una modifica tanto marginale che merita soltanto un accenno, en passant. La presente disposizione prevede, difatti, che per i reati commessi sia il Presidente del Consiglio che i Ministri, ancorché sia cessata la loro carica, vengano sottoposti alla giurisdizione ordinaria previa autorizzazione della Camera dei deputati. Precedentemente tale autorizzazione doveva essere adottata, alternativamente, o dalla Camera dei deputati o dal Senato della Repubblica, in ragione dell’appartenenza del membro del Governo all’una od all’altra Camera.
L’articolo 97 della Costituzione, nella sua versione vigente, contiene i principi sulla base dei quali debba essere organizzata l’attività della Pubblica Amministrazione. I commi 1, 3 e 4 rimangono invariati, e sanciscono il dovere della Pubblica Amministrazione tutta di garantire l’equilibrio di bilancio, di dotarsi di una struttura organizzativa che permetta la divisione delle sfere di competenza e di prevedere dei meccanismi di assunzione mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge.
L’innovazione portata dalla riforma costituzionale può essere considerata quantitativamente marginale, poiché si concretizza nella aggiunta di sole tre parole. Ma l’importanza di queste tre parole è di livello incommensurabile. Il secondo comma dell’articolo 97, infatti, stabilisce che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge – e qui viene sancito il principio di legalità -, in modo che siano assicurati il buon andamento, l’imparzialità e – qui sta la grande innovazione – la trasparenza dell’amministrazione.”
Può apparire, come già detto, qualcosa di assolutamente marginale. Così non è. Per due ordini di motivi. Il primo riguarda il valore che decidiamo di assegnare alla Costituzione. Se si parte dal presupposto, e credo lo si debba fare, che le parole in Costituzione non compongano semplicemente un testo di legge, ma siano invece la “base definita della vita costituzionale italiana” – come ha affermato Meuccio Ruini, il 22 dicembre del 1947 -, allora si deve convenire che qualunque parola inserita nella carta costituzionale costituisce, necessariamente, parte del basamento, sociale e giuridico, della nostra società.
Il secondo motivo è di carattere eminentemente normativo. Il principio di trasparenza, ancorché non sancito direttamente in Costituzione, precedentemente poteva essere rinvenuto nella legge numero 241 del 1990, precisamente all’articolo 1. Tale disposizione prevede che “L’attività amministrativa (…) è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza.” Come si vede, il principio di trasparenza veniva parificato ad un’altra serie di principi, che assumevano il medesimo valore. È necessario, prima di concludere, accennare al fatto che il principio di trasparenza non costituisca un’enunciazione generica, poiché riveste una enorme importanza nella vita quotidiana di ognuno di noi. Il fatto di aver inserito in Costituzione il termine “trasparenza” significa che nessuna Pubblica Amministrazione potrà sottrarsi dal rispettare, od aggirare, tale principio – tramite, ad esempio, negazione o rinvio di una richiesta di accesso ai documenti.
La riforma costituzionale adotta una linea di principio precisa: rendere la trasparenza non uno dei tanti principi sui quali si regge l’attività della Pubblica Amministrazione, ma il principio cardine – assieme all’imparzialità ed al buon andamento – dell’attività amministrativa, da considerarsi come presupposto ed obiettivo. La trasparenza, nell’attività della Pubblica Amministrazione, non potrà più essere derubricato a principio generico e programmatico, perché quando una parola entra in un testo costituzionale cambia ragion d’essere, e viene impressa a fuoco nella società cui accede.