Signor Presidente, signor Ministro, la ringraziamo per la sua presenza che è un attestato non usuale di attenzione da parte del Governo e nei confronti della sua intelligenza e della sua cultura politica rispetto a determinate questioni. Sarebbe inevitabile non fosse così, visto che stiamo parlando di autonomie locali e la sua intelligenza, sono certo, la porterà a considerare con drammatica evidenza in quale situazione di incertezza e di confusione, a volte di frustrazione, le autonomie locali nel loro complesso si stiano muovendo sul proprio destino rispetto a come garantire efficacia ed efficienza di servizio nei confronti dei cittadini amministrati.
Appare paradossale tutto questo alla luce di un periodo, iniziato circa vent’anni fa, in cui ha fatto irruzione nel lessico politico il termine «federalismo», a volte utilizzato come sinonimo di autonomismo o a volte anche nella versione di separatismo.
Ora crediamo che vent’anni siano un periodo di tempo sufficiente per consentire di verificare in modo pratico gli effetti che l’insieme di norme varate sotto il viatico del federalismo hanno prodotto sul sistema delle autonomie locali nel nostro Paese.
In particolare, abbiamo subito una accelerazione nell’ultimo triennio con cadenze di norme, con cadenze strettissime, dalla proposta di sopprimere i comuni sotto i mille abitanti, poi revocata. Dall’accorpamento al mantenimento delle province, al tentativo di soppressione bocciato dalla Corte Costituzionale. La soppressione, poi negata, dei consorzi socio-assistenziali, un continuo movimento di avanti e indietro che di fatto ha generato confusione.
Credo che valga la pena andare all’origine di questa serie storica che, aldilà dei proclami, si genera come frustrazione per le autonomie locali, richiamando alla mente e alla memoria tutto ciò che è intervenuto dall’istituzione delle regioni negli anni Settanta, e alla mancata riforma di allora di comuni e di province.
In quei decenni comuni e province sono state istituzioni territoriali in larga misura in balia dello Stato e delle regioni . Si è dovuto attendere sino alla legge n. 142 del 1992 per cominciare a incidere sul vecchio ordinamento risalente ancora all’epoca fascista, per valorizzare le autonomie locali in sintonia con quanto stabilito dall’articolo 128 della Costituzione, poi soppresso dalla riforma del Titolo V.
Nel frattempo, le regioni sono hanno tentato spesso di intervenire sul tessuto locale, specie prefigurando comprensori, circondari o altre strutture alternative alla provincia. Tentativi per superare la dimensione territoriale di area vasta che invece rappresenta un punto di riferimento costituzionale imprescindibile del sistema istituzionale del nostro Paese e il dibattito di oggi, nelle parole del relatore e nelle parole del Ministro, ponga questa questione senza eluderle.
Il tema dell’area vasta, della soppressione o meno delle province, è un tema di natura costituzionale non affidabile a un disegno di legge ordinaria.
Gli ultimi vent’anni sono stati contrassegnati da riforme e innovazioni che hanno investito in alcuni casi le autonomie territoriali, sia quelle locali comunali, che quelle provinciali. Tali riforme in attuazione e lo sviluppo del principio autonomistico dell’articolo 5 della Costituzione, hanno avuto anche una rilevanza molto significativa. La stagione autonomistica viene avviata nel 1990 con la legge 142, e i successivi decreti attuativi che si traducono in tributi propri addizionali, con partecipazione, razionalizzazione dei trasferimenti dal centro alla periferia. Per tutti questa svolta ha due immagini simboliche: l’elezione diretta dei presidenti delle province, dei sindaci e l’istituzione di un tributo locale come quello dell’ICI, che ha avuto alterne vicende nell’arco di questi venti anni.
In tutti questi anni però permane ciò che si era consolidato anche precedentemente, ovvero un accentramento di carattere regionale, una sorta di progressiva amministrativizzazione dell’ente regione; è una sorta di resistenza delle stesse regioni al decentramento amministrativo degli enti locali, un vero e proprio centralismo regionale a cui tutti noi oggi assistiamo. Nell’affrontare il dibattito su questo disegno di legge, non facciamo molti passi avanti rispetto alla confusione generata in questi anni, né tanto meno rispetto alla concorrenza tra enti locali.
In questo provvedimento, l’istituzione delle città metropolitano rischia di essere un parto non solo difficile, ma forse anche con le prospettive che non si era augurati. Io credo che la mancata abolizione delle province, e quindi il non superamento dell’idea stessa di area vasta, non sia quello che si auspicava in termini di democraticità e di rappresentanza istituzionale con una forte legittimazione in questo Paese.
La parte relativa alle unioni di comuni rimane ancora un troppo timido tentativo di razionalizzare l’estrema frammentazione degli otto e più mila comuni presenti in questo Paese.
Signor Ministro, una collega mi ha ricordato una cosa, richiamando le mie origini regionali: «voi piemontesi, avete fatto l’Italia ma non siete l’Italia».