Gli Enti locali nella Seconda repubblica, dalla fiducia autonomista alla frustrazione di oggi

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Si è aperta oggi a Brindisi l’annuale Assemblea dell’ANCI, mai come in questo ultimi mesi gli Enti Locali vivono in una situazione di incertezza, confusione e frustrazione, paradosso di un periodo storico che aveva esaltato l’autonomie locali e poi le ha minate nel momento stesso in cui forze politiche che hanno fatto del federalismo una fede avrebbero dovuto realizzarlo.

Gli Enti locali insieme a tutte le istituzioni e generalmente alle forme di rappresentanza, compresi, in modo particolare, i Partiti, non godono, in questi anni, di profonda crisi economica, né di una buona salute né tanto meno di fiducia da parte dei cittadini.

Questa situazione appare paradossale se rapportato all’inizio dell’attuale periodo storico definito impropriamente Seconda Repubblica. Questo periodo che per molti aspetti si confonde con il ventennio del berlusconismo, è nato all’inizio degli anni ’90 sulla scorta di riforme epocali per quanto riguarda le autonomie locali incarnate plasticamente  dall’elezione diretta di sindaci  e presidenti di provincia. Formula questa  che senza mai arrivare all’elezione diretta del presidente del consiglio, ha  tuttavia mutato radicalemente  la percezione della politica in Italia.

Tratto permanente di questo periodo storico è la promessa di autonomia e federalismo, dogma leghista che ha pervaso gran parte della cultura politica italiana. Oggi questa promessa federalista, questo anelito autonomista rischiano di morire oggi soffocati da troppo centralismo e da risorse sempre più esigue per far fronte a crescenti funzioni e aspettative da parte dei cittadini nei confronti degli Enti locali.

La serie storica relativa alla riduzione di risorse destinate agli Enti locali è impressionante: nel 1992 i trasferimenti erariali dallo stato ai soli Comuni valevano 17,5 miliardi, nel 2011 appena 12,5. Solo in parte compensati da entrate locali e addizionali.

Per comprendere questo paradosso occorre richiamare alla memoria l’istituzione delle Regioni, negli anni ’70,  e la mancata riforma di allora dei Comuni e delle Province.

Per quei decenni Comuni e Province sono rimasti istituzioni territoriali in larga misura in balia dello Stato e delle Regioni, e si è dovuto attendere sino alla legge 142 del 1992 per  cominciare ad incidere sul vecchio ordinamento risalente all’epoca fascista per valorizzare le autonomie locali in sintonia con quanto stabilito dall’art. 128 della Costituzione.

Nel frattempo le Regioni sono state spesso tentate ad intervenire sul tessuto locale, specie prefigurando comprensori o circondari o altre strutture alternative alla Provincia. Sono stati tentativi di superare la dimensione territoriale di area vasta, che invece rappresenta ancora oggi un punto di riferimento costituzionale imprescindibile del sistema istituzionale del nostro Paese, a parte le ipotesi (superficiali) di chi ciclicamente ne auspica la soppressione.

Gli ultimi vent’anni invece sono stati contrassegnati da una serie di riforme e innovazioni che hanno investito in alcuni casi le autonomie territoriali in generale, sia in altri casi  quelle locali, comunali e provinciali. Tali riforme, in attuazione e sviluppo del principio autonomistico dell’articolo 5 della Costituzione hanno avuto certamente una rilevanza assai significativa.

La stagione autonomista viene avviata nel 1990, con la legge 142 ed il successivo decreto legislativo 504 del 1992 che si traduce in tributi propri, addizionali, compartecipazioni e razionalizzazione dei trasferimenti dal centro. Per tutti questa svolta è incarnata dall’ I.C.I., l’imposta comunale sugli immobili introdotta nel 1993, ancorata ad una base imponibile ampia che garantiva gettiti elevati con aliquote ridotte.

Permane tuttavia in questi anni ciò che si era consolidato precedentemente  a livello regionale ovvero una sorta di progressiva amministrativizzazione dell’ente Regione. Si tratta di una sorta di resistenza delle Regioni al decentramento amministrativo agli Enti locali, in sostanza un vero e proprio centralismo regionale. Si assiste ad una sorta di appiattimento dell’istituto regionale nella gestione amministrativa, con la tendenziale rinuncia ad usare in modo qualificato il ruolo legislativo e programmatorio che avrebbe dovuto caratterizzare l’azione delle Regioni.

E’ attraverso gli Enti locali che si assiste, dopo il periodo di Mani Pulite e alla cancellazione di un’intera classe dirigente, ad una vera e propria primavera politica. La riscoperta delle autonomie diventa la via italiana alla modernizzazione del Paese ed i Sindaci, eletti in forma diretta, incarnano per un periodo novità e fiducia nelle istituzioni. Istituzioni più responsabili grazie alla novità dell’autonomia fiscale capaci di compensare il primo grosso taglio di trasferimenti ai Comuni, dai 17,6  del 1993 miliardi ai 13,6 del 1994, grazie appunto al gettito garantito dall’avvio dell’I.C.I., stimato in 10 mila miliardi di Lire. Occorre ricordare, per comprendere la situazione attuale, che quando venne abolito sulla prima casa nel 2008 l’I.C.I. rendeva 3,3 miliardi di Euro e da allora le promesse di compensazioni ai comuni sono state ripagate con ulteriori tagli di trasferimenti.

Negli anni ’90 il trasferimento di risorse agli Enti Locali è stato costante ed ogni calo si è accompagnato con l’avvio di tributi locali. Ad esempio il taglio di quasi 1,5 miliardi tra il 1999 e il 2000 viene compensato dalla partecipazione facoltativa a quote di gettito sull’addizionale Irpef. Una leva che porta in cassa ai comuni 274 milioni nel ’99 e poi, progressivamente, 670 nel 2000, un miliardo nel 2001 fino ai 2,7 miliardi di oggi.

Il processo di decentramento amministrativo è partito con la riforma Bassanini nel biennio tra il 1997 e 1999 in una prospettiva che ha preceduto e in un certo modo preparato la riforma costituzionale del titolo V della Costituzione, realizzata in parte nel 1999 (per alcuni profili riguardanti le autonomie regionali) e poi, più organicamente, nel 2001, allorquando si è anzitutto sancito il principio “rivoluzionario”(rispetto alla cultura istituzionale tradizionale) che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.

La portata di tali riforme viene progressivamente affievolita da un aumento costante di tagli (da 14 miliardi nel 2003 a 11,6 nel 2008), dalla centralizzazione della spesa, dal blocco delle addizionali IRPEF (sbloccate solo nel breve periodo del Governo Prodi tra il 2006 e 2008) e da un nuovo patto di stabilità che blocca di fatto la capacità di spesa degli Enti Locali con un crollo degli investimenti.

Si concretizzano così le  resistenze e gli ostacoli che si sono frapposti agli obiettivi che la riforma del Titolo V aveva indicato. Si assiste ad un centralismo di ritorno che è duro a morire, complice anche un bipolarismo disattento alle condizioni che dovrebbero unire più che dividere il sistema Paese.

Complici sfasature metodologiche: clamorosa è quella che riguarda il cosiddetto federalismo fiscale, che è stata avviato con la legge 42 del 2009 prima che fosse operato il riassetto delle funzioni, anzitutto locali, con la conseguenza di incertezze e difficoltà di notevole complessità nell’attuazione di un disegno già di per sé tecnicamente complicato. Inoltre, si sono aggiunte contraddizioni molto forti negli interventi legislativi statali, soprattutto in quelli di carattere finanziario: le varie leggi finanziarie, oppure i molti decreti che hanno variamente, spesso profondamente messo in discussione le risorse di spettanza e quella che dovrebbe essere la responsabilità di governo (anche) sul piano finanziario delle Regioni e delle autonomie locali.

Se per alcuni anni gli Enti locali hanno tamponato la situazione usando parti di oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente, incentivando un crescente uso di suolo; è evidente come archiviata qualsiasi prospettiva di ciclo espansivo dell’economica questo sistema non possa più a lungo reggersi.  Sul tavolo restano i tagli delle ultime manovre di stabilizzazione finanziaria che corrispondono ad un taglio del 40% delle risorse trasferite nel 2010 e un patto di stabilità che blocca 43 miliardi di residui utilizzabili per riavvviare lo sviluppo locale.

Oggi la prospettiva di un’attuazione coerente della riforma del titolo V appare assai incerta. In questo contesto problematico, non vanno tra l’altro assolutamente sottovalutati gli elementi di confusione o di forte ambiguità e i molti equivoci che scaturiscono dal processo in corso di revisione della finanza locale e regionale.

Quest’ultima legislatura è costellata di continui interventi che svuotano (di diritto o di fatto) soprattutto le autonomie locali, costringendo ad una riduzione di interventi e servizi sociali da tempo esercitati.

Nella primavera scorsa i successi di alcuni Sindaci del Centro-Sinistra unitamente ai risultati referendari sembravano aver aperto una nuova stagione di fiducia in Italia. Tale stagione sembra essersi improvvisamente richiusa dopo i provvedimenti di natura finanziaria avvenuti nell’estate con nuove frustrazioni per gli Enti locali e per i servizi pubblici locali, ma ha dimostrato una grande capacità di partecipazione e fiducia nell’innovazione.

E’ da questa fiducia nell’innovazione che va riannodato il filo con la capacità di affrontare per gli Enti locali questioni ineludibili come quella della correlazione tra tutte le funzioni attribuite e le risorse necessarie, pena la sopravvivenza degli Enti stessi, il cui venire meno sarebbe un danno in capacità di rilancio dell’economia (con un nuovo e diverso patto di stabilità) di erogazione di servizi (la cui richiesta cresce in momenti di difficoltà economica) e di democrazia nelle sue forme di rappresentanza più vicine ai cittadini.

Fabio Lavagno

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